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Sostenibilità ambientale e sviluppo edilizio. Nemici per forza?

Uno dei termini con cui abbiamo imparato a fare conoscenza negli ultimi anni, soprattutto a seguito dei numerosi eventi calamitosi che hanno interessato l’Italia ed in particolare il Veneto, è cementificazione, ovvero la significativa urbanizzazione di terreno per lo più agricolo e comunque “libero” a beneficio dell’attività edificatoria, con conseguente aumento della fragilità idrogeologica che diventa critica in occasione di sempre più frequenti eventi atmosferici particolarmente intensi.

tessuto caratteristico della città diffusa del nord-est

E’ evidente che il modello di sviluppo urbanistico attuato dagli anni ’60 ai giorni nostri, che ha portato alla cosiddetta città diffusa (basta percorrere in treno la tratta Padova-Mestre per rendersi conto che, pur attraversando una mezza dozzina di comuni, il tessuto edificato è praticamente unico e continuo), ha inciso sensibilmente su questa fragilità; ma è altrettanto evidente che lo sviluppo edilizio ed infrastrutturale è strettamente correlato ad una domanda di mercato, e visto che in 50 anni il numero di abitanti del Veneto è cresciuto di circa 1.200.000 unità si è ovviamente provveduto di conseguenza a dare una risposta alle necessità abitative, lavorative, sociali di una popolazione in crescita.

vista della periferia di Treviso

Nella fase attuale però, vista la “frenata” demografica e la concomitante crisi economica che ha di fatto bloccato molte iniziative degli operatori immobiliari, lo scenario è quantomai propizio per gettare le basi per uno sviluppo urbanistico sostenibile che possa rispondere alle esigenze future della popolazione da un lato, e contestualmente non solo non aggravare, ma possibilmente alleggerire la fragilità del nostro territorio. Possibile? Io ritengo di si.

E’ possibile se si cambia la prospettiva, abbandonando il modello storico della città orizzontale a favore di un nuovo modello improntato sulla città verticale. Senza dover arrivare alle soluzioni ardite visibili a Dubai piuttosto che a Pechino, un tessuto edilizio fondato su edifici che si sviluppano prevalentemente in altezza garantisce risposte ai bisogni insediativi occupando porzioni di suolo ben più ridotte rispetto al modello tradizionale della città diffusa, lasciando conseguentemente liberi ampi spazi per parchi e giardini all’aperto così importanti per l’equilibrio idrogeologico del nostro territorio.

Senza entrare nel merito dei giudizi architettonici sugli esempi milanesi riportati, il principio per cui lo sviluppo in altezza rappresenta un beneficio in termini di incidenza idrogeologica sul territorio mi pare indiscutibile. E, fatti salvi i contesti di particolare valore storico ed architettonico, l’applicazione di tale principio anche nell’ambito della normativa urbanistica regionale, ed in particolare in quello degli interventi disciplinati dall’art. 3 del cd. “Piano Casa”, garantendo una premialità in termini di cubatura proporzionale alla porzione di terreno “restituita” alla sua naturale vocazione, può costituire senza dubbio un volano importante verso il recupero di aree che oggi costituiscono una ferita non solo dal punto di vista architettonico e funzionale, ma anche da quello ambientale.


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